A tutta birra per AVSI

ovvero “a nulla fuorché a Gesù il Cristiano è attaccato”.

Qualche tempo fa si è tenuta a Termoli una festa promossa dal locale AVSI POINT, in collaborazione con alcune realtà del mondo del volontariato e culturale di Termoli e del Basso Molise, come il Centro di Solidarietà e Carità, l’associazione di volontariato “Scuola e Famiglia”, il centro culturale “Il Circolo dei Lazzari”, etc., avvalendosi anche dell’apporto di semplici cittadini e volontari.
A TUTTA BIRRA PER AVSI aveva lo scopo di raccogliere fondi in favore dell’Associazione Volontari per il Servizio Internazionale, un’organizzazione non governativa, nata nel 1972 e impegnata con oltre 100 progetti di cooperazione allo sviluppo in 37 paesi del mondo di Africa, America Latina e Caraibi, Est Europa, Medio Oriente, Asia.
Dopo qualche giorno gli amici dell’Avsi Point di Termoli si sono ritrovati, una sera, per una verifica del lavoro svolto e per raccontarsi com’era andata.
Dalle testimonianze di tutti è emerso che è stata un’esperienza affascinante, anche se faticosa. Le difficoltà logistiche e burocratiche, l’entusiasmo altalenante, la voglia di mollare, l’offuscamento della chiarezza rispetto all’utilità del gesto e la scarsa consapevolezza del significato che lo stesso aveva, hanno accompagnato tutto lo svolgersi dell’avvenimento, dall’organizzazione (comprare gli arrosticini, allestire gli stand, chiedere i permessi, etc.etc.) alla realizzazione vera e propria (cuocere gli arrosticini, spillare la birra, far funzionare l’audio, diffondere Buone Notizie e parlare di AVSI con gli ospiti, smontare tutto, etc.etc.).
Poi, qualcuno, citando Chesterton, ha detto: “Se una cosa val la pena di essere fatta, va fatta, anche se rischia di essere fatta male”. Per chi si è dedicato a mettere in atto la festa per AVSI, anche se offuscata o smarrita, c’era la coscienza che quello che si stava facendo era una cosa che meritava di essere fatta: per se stessi e per gli altri.
Spesso capita a chi è impegnato in attività di volontariato di non capire bene il nesso tra due posizioni. La prima è legata al desiderio di far emergere in maniera chiara, limpida e trasparente la ragione per cui quella particolare iniziativa si propone, ovvero si desidera che «dal frutto si possa riconosce l’albero» e che, quindi, in qualche misura il risultato positivo (quanti arrosticini si è riusciti a vendere!) abbia a che fare con la validità dell’azione.
L’altra posizione riguarda il fatto che «bisogna essere liberi dall’esito», senza preoccuparsi dei punti critici o dei risultati negativi.
Questa incapacità di cogliere il nesso fra le due cose è stata un aspetto dell’esperienza fatta nella circostanza della festa per Avsi ed è stata oggetto di una domanda specifica nel corso dell’assemblea Opere di Carità della Compagnia delle Opere tenutasi a Milano il 13 giugno scorso, in merito alla quale Don Juliàn Carròn ha risposto, più o meno, così: “…Come posso, in fondo, essere libero dall’esito? La prima cosa che occorre capire per incominciare a essere liberi – come ciascuno può riconoscere dalla propria esperienza – è riconoscere che ogni tentativo di risposta a un bisogno (l’Avsi, le adozioni a distanza, il Banco Alimentare, il doposcuola, etc.etc.) è sempre imperfetto. … Se cominciamo a riconoscere l’imperfezione di ogni atto umano (anche il più nobile), di ogni gesto umano (anche il più significativo), di ogni tentativo umano (anche il più serio), allora potremo pian piano essere liberi di cominciare a guardare quello che non va, a riconoscerlo, senza sentirci giudicati o messi in discussione soltanto per questo, perché appartiene a ogni gesto umano l’essere imperfetto. Malgrado questo, a volte siamo disponibili a riconoscere le cose che vanno bene enfatizzando i successi, ma siamo meno disponibili a riconoscere i punti critici. … Che cosa consente, allora, a un uomo di riconoscere i limiti di quello che fa? Don Giussani lo dice con questa frase: «A nulla fuorché a Gesù il cristiano è attaccato» (L. Giussani, «Quella grande forza del Papa in ginocchio», la Repubblica, 15 marzo 2000, p. 16). È solo se noi siamo attaccati a Gesù, se non mettiamo la nostra consistenza in altro che non Gesù, che possiamo riuscire a riconoscere i limiti di quello che facciamo. Per questo è importante che noi ci rendiamo conto che non basta sapere che l’opera (o il tentativo di risposta ad un bisogno) è imperfetta e che l’unica possibilità è avere Gesù, ma occorre che Gesù sia così realmente presente, sia un’esperienza così reale, che io possa guardare anche il mio limite, il mio male e la mia incompiutezza senza scandalizzarmi, perché la mia consistenza non è in quello, perché la mia consistenza davvero è in Cristo: «A nulla fuorché a Gesù il cristiano è attaccato». E questo non si improvvisa facendo un’opera (o tentando di aiutare un’organizzazione non profit come Avsi vendendo birra e arrosticini), perché non appartiene all’opera, ma appartiene al cammino di fede che ciascuno fa. E se non lo fa, è evidente che questo, poi, si vede nell’incapacità di riconoscere i limiti dell’opera; così tante volte i problemi sono problemi personali non risolti. Non sono problemi dell’opera, sono problemi nostri: non abbiamo la consistenza adeguata per riconoscere quello che è imperfetto e quello che non va. Dunque, soltanto uno che ha una consistenza può costantemente tendere a imparare, essendo libero dall’esito… (Tratto da: J. Carrón, La diversità di un’opera, in «Tracce», n. 7, luglio/agosto 2012, inserto) – (N.B.: Le parti non in corsivo sono del sottoscritto).
Per cui se la mia consistenza è nel cammino di fede che sto facendo, è importante tenere in debito conto tutto ciò che all’interno di questo cammino emerge, come il radunarsi per la Giornata di Fine Anno.

Pesce (ner)Azzurro