Appunti dalla Francia per l’Italia

Mi trovo a Chateauroux, capoluogo dell’Indre.
Si tratta di un area rurale, con una densità di popolazione tra le più basse della Francia. Lavoro in una clinica come medico. C’è una carenza spaventosa di medici causa la recessione, la denatalità e anni di numero chiuso alle facoltà di medicina, abolito da un mese.
Per una visita specialistica si percorrono anche 60 kilometri di sola andata. Due settimane per una visita dal medico di base. Un giorno ho visitato un ragazzo di trent’anni che aveva il testicolo in gangrena perché nell’ospedale pubblico non cerano urologi. Roba da terzo mondo. Degli amici mi dicono che a Parigi per una visita medica si deve attendere settimane. Nella clinica dove lavoro solo uno di quattro anestesisti è francese e questo rapporto è rappresentativo del resto dei medici. Ottanta percento delle persone che visito prendono antidepressivi. Ritengo che sia piuttosto per via di una malattia dei medici francesi ma i numeri sono impressionanti.
Lo stato regna. Il concetto di laicità, difeso come la più grande invenzione del mondo, penetra tutto. Spiego subito cos’è. Al lavoro i colleghi mi accusano di aver fatto interrompere per motivi religiosi la pillola a una ragazza che doveva operarsi. In realtà è per il rischio tromboembolico ma tant’è. Temono infiltrazioni terroristiche religiose e si sentono in dovere di difendere il bene comune.
A me fa ridere ma molti francesi sono ideologicamente convinti e ti portano fino davanti alle autorità per queste cose. Si divertono anche ad infilarti sotto la porta dello studio fogli di accusa anonimi. Se non capisci il messaggio iniziale li appendono per i muri del luogo di lavoro, veri e propri Tazebao. In fondo il comunismo lo hanno inventato loro.
Dell’aborto si parla continuamente come della Shoah, è in fondo c’è una qualche coerenza. Salvo la difesa dell’aborto come la più grande rivoluzione dopo quella francese.
Lo stato si impegna per essere il più possibile sociale. Quasi a voler fare concorrenza alla Chiesa o a dimostrare che essa non serve. Varie sigle indicano i più variegati sussidi di cui francesi e immigrati godono. Eppure 80% dei pazienti ha un antidèpressivo.
La città è composta dal centro, i quartieri limitrofi e poi la ZUP (banlieue). In centro c’è il mercato tradizionale, un festival di prodotti locali di qualità tra cui spiccano mele, verdura e formaggi. Ormai ho una dipendenza da formaggio di capra e mele della regione. Il pane è buonissimo. In centro c’è anche una “Fromagerie”, un negozio dove vendono solo formaggi, di altissima qualità e prezzo. Un negoziante mi vende la torta di Pasqua. Alla domanda se crede mi dice che in gioventù era credente, ora no.
Quattro belle chiese e uno stupendo monastero benedettino del settimo secolo distrutto dai protestanti ricordano ancora le radici cristiane della Francia. Ora tutto si trova disgregato. L’antica chiesa romanica di S. Andrea che si trovava nella piazza centrale della città è stata distrutta durante la Rivoluzione ed è stata ricostruita più in periferia quasi 100 anni dopo. Le messe sono poche e le confessioni pure. Nulla a che vedere con l’abbondanza dell’Italia. Nella chiesa di Notre Dame qualche fedele mette ancora la firma sul libretto delle presenze alla Adorazione Eucaristica.
ll posto della chiesa come centro della vita della città lo ha preso la Mairie o Hotel de Ville, il Municipio. Agli italiani farebbe ridere ma i francesi ci credono con orgoglio. Lo stato qui è come il grande fratello, che tutti controlla e a tutti da.
Poi c’è il mercato multietnico giusto dietro alla chiesa principale della città. I francesi quasi non ci vanno e tra gli articoli in vendita c’è il burqa.
Un collega siriano mi consiglia di andare in un ottimo e conveniente supermercato del quartiere Saint Jean (non ero mai uscito fuori dal centro) per comprare del formaggio bianco. Per intenderci, quello simile al quartirolo lombardo che si mangia in tutto il mediterraneo esclusa Italia, Francia e Spagna.
All’arrivo a Saint Jean la vista si riempie delle immagini di grandi palazzoni (modello blok sovietico) popolari popolati da africani. Un ghetto. Penso subito al mio amico armeno, tecnico odontoiatra, moglie matematico, una figlia di 2 anni, cristiani sempre presenti a messa la domenica, puliti, ordinati e pieni di dignità. Sono illegali e la Francia non ha dato loro i documenti. Eppure sarebbero più “integrabili”.
Il supermercato fa parte di un complesso dove troviamo la posta, dei bar e altri negozietti.
Alle ore 11 i tavolini sono pieni di maschi arabi, vestiti in tuta o jeans e giubbotto di pelle, che chiaccherano, sgracchiano la gola per sputare più catarro possibile e sono visibilmente poco puliti.
Gente di etnie diverse ma accomunate da comuni denominatori: immigrati, neri o mulatti, musulmani, poveri, fatti venire in seguito alle politiche stimolate dai grandi industriali, accatastati in quartieri periferici. Vivono in Europa come se vivessero nei rispettivi paesi, solo che usufruiscono dei servizi europei. A loro è offerto di riempire i vuoti delle nostre società, lavori umili e cose del genere. Molti sono disoccupati in realtà. Chissà se si accorgono della bellezza che ha costruito l’Europa. Qualcuno sarà contento si vedere Notre Dame bruciare, come certi turchi hanno scritto. Qualcuno offrirà soldi per farla diventare moschea.
All’ingresso nel supermercato provo tristezza, fastidio e inizio a pensare che il mio collega sia un pazzo. Accanto a tanta sporcizia incrostata e sedimentata sui muri e nei pavimenti, vedo salse di tutti i colori, cibi strani anche per me che sono orientale, ingredienti scritti solo in arabo o turco, accanto a cose più normali e commestibili. Polvere su ogni cosa e ambiente lucubre. Eppure il collega me l’ha consigliato!
Esco infastidito e torno a casa. Racconto a mia moglie che sabato era andata a vedere il mercato multietnico ed era ritornata insofferente dicendo “mai più”. Esco in giardino e incontro il vicino di casa. Sono musulmani e sua moglie e sua figlia non mi parlano perché sono maschio.
Inizio a zappare per piantare le fragole. Le zolle di terra scoprono le migliaia di radici che lo strato di erba crea nel sottosuolo. Per piantarci le fragole lo devo distruggere. È quello che succede agli uomini. Non siamo numeri. Se mancano 1000 di qua e li porti da altri paesi devi pensare alla vita che faranno, le ramificazioni del sottosuolo. Sono anche io un ex e attuale immigrato.
Alla messa domenicale abbiamo conosciuto delle coppie sposate con figli. Si siedono allo stesso posto e stanno sempre insieme. Qui si sposano da giovani e fanno tanti figli. Un giorno li abbiamo invitati a casa. Ci hanno detto di essere la “resistenza” cristiana cattolica. La vera Francia. Fede, patria, tradizione. Quelli che sono messi a pregare per Notre Dame. Non si nascondono. Quello che vivono in casa lo vivono anche al lavoro. Se dici al lavoro che sei cattolico ti rispondono ce anche loro lo sono. Pregano e fanno pregare i figli. Offrono subito aiuto a noi stranieri. Parlano di Gesù nominandolo e dicendo che è presente. Sostengono la scuola cattolica facendo figli e iscrivendoli. Hanno ottenuto che gli insegnanti siano pagati dallo stato come nelle scuole pubbliche. Combattono e resistono, ma senza provocare lo stato.
Qualcuno tiene i bambini a casa per l’istruzione. Lo stato lo permette e dona sussidi educativi e loro approfittano per educare cristianamente.
In fondo alla chiesa siedono sempre i neri. Sono rispettabili, amichevoli, simpatici, ordinati. Ma i posti a messa sono divisi ancora. Penso che se Dio gli ha accolti io non sono nessuno per discriminare? Ogni persona va incontrata e non si può eliminare questa dimensione.
Eppure vedere una società così fa paura. Non mi sento razzista. Semmai borghese. Ma come si fa e cosa si fa in questa situazione? Al lavoro le differenze di concezione della realtà con il collega africano sono tali da impedire il lavoro. Se non è possibile fermare lo spostamento e il mutamento dei popoli bisogna rassegnarsi alla società liquida? Se l’etnia non può essere un comune denominatore in eterno, ogni uomo è un fattore che influisce sulla vita di tutti.
Mi ricordo il ghetto degli zingari a Tirana. Tra due popolazioni diverse e con concetto diverso della vita la soluzione migliore, la minore violenza, era mettere dei confini. Se no sarebbe stata la guerra. Gli zingari abitavano nel loro quartiere e nessuno si mescolava a loro. E vivevano nella città degli albanesi come fosse la loro casa, senza cambiare nessun uso e costume. Questa era la convenzione che la saggezza popolare aveva imposto in mancanza di una possibilità di un di più.
Eppure le etnie che hanno formato odierno popolo italiano, anch’esse in mezzo a imperi e regni, hanno un comune denominatore, che è quello che si incontra nella “resistenza” francese.
Quello che sta sotto alla concezione dei due diversi mercati nei due quartieri è l’idea della bellezza, della pulizia, della dignità, e del lavoro che si ha e si testimonia. È l’idea il punto, o il Verbo se volete. E l’incontro che ne è scaturito. Ed è per questo che l’unica risposta, allora nell’impero romano, come oggi in Europa, è di costruire la Chiesa li dove si è.

P.S. Non confondere la Chiesa con le opere sociali.

Aulonocara