Della fragilità e del bisogno. Della libertà e della Grazia passando per la carità

Vorrei condividere con voi la lettera che mi ha inviato un amico a cui ho chiesto di raccontarmi della sua esperienza presso un centro di accoglienza per migranti.

«In cinque anni di lavoro presso il centro di accoglienza ci sono diverse esperienze significative da raccontare. Non mi attardo a spiegarti come funziona un centro.

Il primo aspetto che vorrei sottolineare è che per me andarci a lavorare è stato un ripiego; ma il fatto di essermi ritrovato a lavorare, io che avevo fatto numerose esperienze professionali di un certo livello, non è diventata un’occasione di lamento e di recriminazione. È stata una nuova sfida in una realtà di cui conoscevo a malapena i contorni.

Una cosa che ho imparato nel mio cammino di fede con i compagni che il Signore mi ha messo accanto è che occorre sempre avere delle ragioni adeguate per fare le cose. In quel contesto e in quelle condizioni non mi sembrava che ve ne fossero, all’inizio. Poi, però, oltre a ri-scoprire che avere un lavoro con uno stipendio (molto poco lauto, per la verità) era una ragione abbastanza valida e rappresentava un motivo adeguato per aderire a quella circostanza, ho ri-scoperto, nell’esperienza quotidiana, che c’era qualcos’altro che mi faceva muovere, un fattore, un movente che io ero chiamato a riconoscere continuamente; spero che questo “movente”, ciò che mi faceva muovere tu lo possa cogliere nel racconto di alcune cose che mi accingo a farti.

Quale è stata la prima dimensione, dal punto di vista esistenziale, in cui mi sono imbattuto? Che i migranti che incontravo al centro esprimevano un’esigenza, un bisogno; anzi erano esigenza, erano bisogno. Ho potuto toccare con mano come l’essere degli uomini è tutto proteso a qualcosa che lo completi e ho potuto meglio capire che ciò che ne caratterizza più profondamente l’esistenza è lo stato permanente di mancanza, di miseria e, quindi, di bisogno.

Allora la mia prima reazione a questo aspetto della sfida è stato rendermi conto della necessità di condividere il più possibile i loro bisogni, le loro esigenze, accorgendomi veramente di essi, comprendendoli, facendomene carico così come sapevo fare e, soprattutto, così come avevo imparato a fare, senza la pretesa di rispondere completamente ai loro bisogni o di dargli tutto ciò che gli mancava.

Questa tentata condivisione ha cominciato a far parte del mio lavoro, a diventare la modalità normale con la quale mi rapportavo a loro.

Se la loro condizione era quella del bisogno nudo e crudo, quale era l’atteggiamento di questi ragazzi? Provo brevemente a descriverlo.

All’arrivo sono eccitati perché hanno compiuto un’impresa (attraversare il deserto, le prigioni libiche ed il Mediterraneo non è proprio una passeggiata) e perché sono di fronte a un mondo completamente diverso e tutto da scoprire; nello stesso tempo, lo si vede, sono istintivamente grati, ci consideravano dei salvatori; poi se dimostri un po’ di attenzione nei loro confronti li conquisti.

Cissè e Serge: Un giorno questi due ragazzi ivoriani entrano in ufficio e mi dicono: “Papà Angelo, volevamo ringraziarti per quello che stai facendo per noi e dirti che non ci dimenticheremo mai di te”. Allora io mi sono alzato, li ho abbracciati entrambi e gli ho detto: “Sono molto contento di quello che mi avete detto e sono io che ringrazio voi, ma penso che per voi due fra un anno io sarò solo un ricordo lontano”. “No, no, no, papà Angelo…”. Ho avuto ragione io, naturalmente.  

Mary ed Happy: Dopo qualche tempo di permanenza al Centro non si parlava d’altro che del prezziario delle prestazioni delle ragazze da poco arrivate…. Il problema, ad un certo punto, è stato: ma io come sto di fronte a questa situazione? Allora una sera, di fronte all’ennesimo pettegolezzo, ho deciso di rimanere in struttura per portarle a mangiare una pizza: volevo dimostrargli che è possibile dare loro qualcosa gratis, senza chiedere nulla in cambio. Dopo la pizza, tornando al Centro una delle due mi fa: “Papà Angelo, I want give you something“ o forse “I want do something for you”. Gli ho detto, nel mio fluente inglese: “Don’t worry, non mi serve niente; l’ho fatto per voi, non per avere qualcosa in cambio”. Allora ha abbassato gli occhi, ha chinato la testa e ha detto con la voce strozzata da un inizio di pianto: “Thank you, papà Angelo”.

Col passare del tempo nel loro atteggiamento subentra, da un lato, l’abitudine e, dall’altro, un atteggiamento di pretesa: sul mangiare, sulle regole, sui documenti che non arrivano, etc., etc.. E allora è una guerra!!! Anche se aumenta l’insofferenza, c’è anche chi riconosce che c’è uno sguardo diverso sulla loro persona, come testimoniano questi messaggi che alcuni di loro mi hanno inviato.

UNITY: “Sei un buon padre, che ogni figlio vorrebbe avere e stando vicino a te ha voluto dire capire che avresti voluto fare qualsiasi cosa per renderci felici. Da quando siamo venuti qui tutto ciò che desideri è la nostra felicità e ci hai anche detto di stare lontano dai guai e di essere buoni. Anche quando ci hanno dato i risultati negativi, sei stato triste e si capiva che stavi male per noi”.

LUCKY; “Sei un padre amorevole che non ho mai visto in vita mia, perché sei stato una persona buona con me”.

EUNICE: “Papà Angelo sei un uomo gentile con un cuore buono che ci ha amato, ti sei preso cura di noi come un padre. Per tutto il tempo che ho vissuto al campo ho visto che sei stato un brav’uomo e prego Dio che ti benedica abbondantemente nel nome di Gesù”.

Entrare in rapporto con la fragilità di queste persone è sempre stata una continua altalena tra libertà e Grazia, perché da un lato dovevo mettere in gioco la mia libertà, giocarmi fino in fondo nel rapporto con loro e, dall’altro, che avere coscienza del movente di cui dicevo prima, era una Grazia, un dono. Una Grazia che si esprimeva attraverso una tensione. Stare davanti a delle persone che apparentemente non mi corrispondevano (odorare per credere), che erano lontane dalla mia sensibilità e, proprio per questo, mi dicevano: “devi andare più in là, oltre, non ti puoi fermare ai miei difetti, ai miei limiti, al mio modo di fare…” è come una vertigine.

Allora ho avuto conferma che qualunque gesto facessi doveva avere dentro questa tensione, altrimenti non sarebbe stato pienamente umano; il cristianesimo, mi sembra, chiami questa cosa qui “amore” e/o “carità”: “ama il prossimo tuo come te stesso”, è l’offerta di sé all’altro ed è veramente “incantevole”.

Un’ultima cosa ti volevo dire: ho capito che si può fare l’esperienza della carità, si può amare una persona non perché è oggetto delle mie buone intenzioni, ma perché posso capire e scoprire di più il Mistero che attraverso di lei si rivela a me; questa comprensione, questa scoperta è un dono, è una Grazia da chiedere sempre, soprattutto quando sembra che Dio non risponda».

Pesce (ner)Azzurro

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