E QUINDI USCIMMO A RIVEDER LE STELLE

È passata circa una settimana dall’inizio dell’isolamento personale per ognuno di noi.
I primi giorni sono stati caratterizzati da panico, smarrimento, confusione e tanto lavoro per capire come procedere.
Le pubblicazioni notturne in Gazzetta Ufficiale dei provvedimenti mi hanno costretto a sedute di studi serali per poter essere pronta la mattina dopo, all’entrata in vigore della normativa, a rispondere alle richieste di clienti e amici, unitamente alla scoperta di come poter fare il mio lavoro.
Non ho partecipato ai flash mob, non ho fatto tutti i giorni la fila ai supermercati, non ho bambini a cui far disegnare i cartelloni arcobaleno di cui ho avuto eco grazie ai social e ai gruppi di WhatsApp.
Dopo una settimana – complice la ritardata pubblicazione del cd. decreto Cura Italia – si è inserita una nuova normalità, tra il lavoro e le faccende di casa, la lettura, le serie tv e le mille telefonate e in questa stabilizzazione due pensieri sono emersi, stranamente da citazioni.
Nessun uomo è un’isola, dice un poeta di cui non ricordo il nome (poi lo cercherò su wikipedia).
L’individualismo galoppante del nostro tempo si è frantumato all’istante.
E non solo a livello del singolo che, chiuso in casa da solo o con il proprio nucleo familiare, si riscopre desideroso di ogni più piccolo rapporto quotidiano (dei baristi sotto il mio ufficio non ho il numero, li rivedrò chissà quando e parlo tutti i giorni con loro di solito, più che con mia madre).
Anche la società ha scoperto che chi fa da sé non fa per tre: sono partite raccolte fondi ovunque per acquistare i presidi sanitari necessari negli ospedali, nei comuni o nei palazzi molti si sono auto-organizzati per portare la spesa ad anziani e persone che non possono uscire, alcune aziende cercano di cambiare la propria produzione in beni adesso indispensabili.
Lo Stato risponde all’emergenza – bene, male, ne parlo un’altra volta – ma è dal basso che parte la risposta ed è nel tessuto sociale che ci può essere l’unica vera speranza per una ripresa, dal perseguimento di quel bene comune di cui tutti parlano ma che sembra sempre così astratto. Tranne oggi.
La Bellezza salverà il mondo, dice il mio carissimo amico Fëdor.
Nella solitudine di queste giornate sentiamo forte il richiamo non solo degli altri ma del Bello, di quello vero che resista come un faro nella tempesta.
Per me una dimostrazione di ciò è il fatto che nella maggior parte dei flash mob sui balconi che ho visto su Facebook ci siano musicisti classici, cantanti d’opera, o interi palazzi che cantano Sciurì sciurì, l’inno di Siena o l’Inno di Mameli ovvero canti della tradizione che portano dentro un significato più profondo della mera evasione musicale.
Ed è di questo che oggi, anche inconsapevolmente, abbiamo tutti bisogno, qualcosa di più grande che resista al virus, all’isolamento, alla crisi finanziaria.
Vorrei poter usare questo tempo di “clausura” per ricordarmelo, in modo da dimenticarlo con molta più difficoltà quando uscirò di nuovo all’aperto. Perché uscirò di nuovo, si tratta solo di capire come.
Ed è proprio da chi della clausura ha fatto una scelta di vita che oggi mi è arrivato un inaspettato aiuto che giro a tutti gli amici di questo vasto mar: è la lettera di Padre Maurizio Lepori, Abate generale dell’Ordine Cistercense che – seppur diretta ai suoi abati, che sono già rinchiusi ho pensato io – mi sembra un aiuto per tutti a ricordarci non che andrà tutto bene ma che dentro le circostanze noi ci siamo adesso ed è adesso il momento di scoprirne il senso per ognuno di noi.

https://www.tempi.it/vivere-in-liberta-questo-tempo-in-cui-siamo-costretti/

Ostrica