Il romanzo dell’umano

A trentacinque anni di distanza dalla prima lettura, quella scolastica, e a diciassette dalla seconda, che coincise con la pubblicazione dei Promessi Sposi nella collana BUR dei libri dello spirito cristiano, mi sto cimentando per la terza volta nella lettura del grande romanzo manzoniano.

Non sono ancora giunto all’epilogo, ma mi pare di poter individuare alcuni elementi che mi confortano nel consigliarne a tutti la lettura (o molto più probabilmente, come nel mio caso, la rilettura).

Certamente le pagine più note del romanzo – dall’addio ai monti alla vicenda di Gertrude, la monaca di Monza, dalla conversione dell’Innominato al quadro della madre di Cecilia durante la peste di Milano – giustificherebbero già di per sé la lettura dei Promessi Sposi, ma ciò che mi ha nuovamente sorpreso, in questa terza lettura, è soprattutto la incredibile capacità di Manzoni di far emergere l’umanità dei propri personaggi. Nobili, popolani, mercanti, sacerdoti emergono tra le righe del romanzo ciascuno con la propria personalità, con le caratteristiche realistiche che fanno dire decine di volte al lettore “è proprio così, succede tante volte anche a me”. E il tratto più evidente e sincero di questa umanità emerge proprio nell’ironia con cui Manzoni tratteggia i propri personaggi, un’ironia sempre sottile, che nasce appunto dalla consapevolezza che l’umanità non è mai perfetta, che anche i “buoni” possono avere sentimenti ed istinti non proprio “moralmente edificanti”, dai quali possono lasciarsi prendere (in questo Renzo è sicuramente un “maestro”), così come anche nei “cattivi” emergono tratti propri di ogni uomo, da cui nessuno può dirsi alieno, neppure coloro che si considerano moralmente ineccepibili. Quella di Manzoni è l’ironia possibile solo a chi guarda l’umano senza moralismo, consapevole che questa umanità così ferita può infine giungere alla salvezza, non per i propri meriti, ma grazie ad una forza che non è la propria, e che possiamo ragionevolmente solo domandare. Buona lettura!

Pescespada