In barba a tutti gli annunci sui cambiamenti climatici e il riscaldamento globale, in Italia, e non solo, fa un freddo bestiale; siamo entrati da tempo in una stagione invernale che a dir poco, ricorda un’era glaciale, immagine ormai usata da tutti per descrivere il crollo delle nascite.
Qualcuno ci vorrebbe riprovare; in Inghilterra un ingegnere della demografia (non sapevo dell’esistenza di questa categoria) avanza l’ipotesi di tassare chi non fa figli. L’idea non è nuova. Fu di Stalin per incoraggiare i russi a fare figli ed è rimasta in vigore fino alla dissoluzione dell’Urss. Anche l’Italia durante il fascismo ebbe la sua legge sul celibato nel 1927: tutti gli uomini non sposati di età compresa tra i 25 e i 65 anni dovevano pagare una tassa a seconda del reddito. Ci provò anche l’imperatore Augusto, imponendo una tassa ai senatori senza moglie.
La proposta, che manco a dirlo ha sollevato polemiche furibonde, non ha nulla a che vedere con le leggi dei regimi che avevano interesse al numero delle baionette sulle quali erano sedute (sic!!) le Guide Supreme; dietro c’è la preoccupazione per l’invecchiamento, e per le spese che le future generazioni dovranno sopportare per l’assistenza sociosanitaria degli anziani sempre più numerosi. Un peso enorme che in futuro rischia di diventare insostenibile. La tassa, secondo il tale ingegnere, corrisponderebbe agli assegni familiari; soldi versati da chi non ha figli per finanziare il sistema di cura della prima infanzia. «Può sembrare ingiusto nei confronti di coloro che non possono o non vogliono avere figli, ma apre gli occhi sul fatto che tutti abbiamo una responsabilità nei confronti delle prossime generazioni e che ognuno dovrebbe contribuire ai costi per sostenerle».
Il ragionamento sembra però più di tipo culturale che economico. Quasi una provocazione, si direbbe, mirata a rendere tutti i cittadini, single compresi, più consapevoli delle conseguenze dell’invecchiamento della popolazione, come la mancanza di forza lavoro. La classe politica dirigente non sembra aver presente la criticità della situazione perché «i cicli elettorali non corrispondono a quelli demografici». Il problema è «creare una cultura pro-nascita». Un Paese votato alle culle piene è anche quello in cui si festeggia per esempio la giornata nazionale della genitorialità, o in cui è consuetudine premiare le famiglie che mettono al mondo il terzo figlio con un telegramma di congratulazioni da parte dello Stato. Iniziative simboliche, insomma, varate a integrare politiche concrete, come quella di destinare le aree verdi delle grandi periferie alla costruzione di case per le famiglie numerose da vendere o affittare a canoni accessibili. L’ingegnere arriva ad immaginare un’agenzia nazionale che monitori gli obiettivi di crescita demografica.
La proposta si è infranta contro un muro di inevitabili critiche. L’idea è stata bollata come “crudele”, “ingiusta”, “frivola” e “impraticabile”. Come conciliarla con la realtà di coppie che non possono avere figli per motivi di salute? O che magari li hanno persi a causa di un lutto? Perché penalizzare gli omosessuali che, per esempio, rinunciano alla genitorialità perché non condividono la pratica dell’utero in affitto? Non sono forse già abbastanza le tasse che tutti pagano per servizi, come scuole o infrastrutture, di cui non hanno personalmente bisogno? Interrogativi importanti. Il problema delle culle vuote è di importanza esistenziale, inutile negarlo, «ma deve essere il governo a sobbarcarsi i costi di una società davvero votata alla natalità, non i singoli cittadini. Occorrono investimenti per aiutare i genitori a mettere al mondo dei figli senza correre il rischio di suicidio professionale e devastazione finanziaria». Quindi più fondi per asili, congedi parentali e programmi di affitto a prezzi calmierati. Però ecco il risultato di un sondaggio sulla controversa tassa; alla domanda “Abbiamo bisogno di un piano per incoraggiare un tasso di natalità più elevato?”, il 74% degli intervistati risponde: no. Che freddo fa!!
Moscardino