La battaglia di Hacksaw Ridge

Mel Gibson ritorna prepotentemente al cinema con un film altrettanto prepotente e  visionario. Come al solito d’altronde. Mel Gibson è così,  si sa.
Ti fa innervosire, ti obbliga a girare la testa e a farti girare la testa.
Ti riduce ad un piccolo spettatore di fronte a qualcosa che grava davanti ai tuoi occhi come un sogno o un incubo, in cui sei attratto e respinto per la dolcezza e la violenza, l’umano e il disumano, per un ideale talmente lontano dalle coscienze dell’uomo d’oggi che sembra incredibile. Eppure è così.
Quando il personaggio principale del film, lasciato solo sul campo di battaglia, un bancone del macellaio o un mattatoio infernale, scegliete voi, si volta verso il mare di fumo e sangue, chi non sente la paura nel suo respiro e allo stesso tempo l’impeto straziante di fare quello che nessun uomo farebbe: rientrare nel terrore della battaglia e salvare le voci di coloro che sono stati abbandonati al loro destino, feriti e dilaniati nel corpo e nell’anima.
E lui parte, in solitario, a confortare ma soprattutto a caricarsi sulle sue esili spalle corpi maciullati, resti di umani che gridano una sola cosa: non lasciarmi.
E quel ragazzo, il vigliacco della sua compagnia, chiede a Dio di rompere il silenzio della sofferenza, ottenendo come risposta il vagito di colui che soffre.
Non c’è più silenzio di Dio. Al contrario, Dio lo spinge su una terra intrisa solo di sangue e budella a caricarsi dei suoi commilitoni che lo avevano deriso e insultato, perché lui vuole fare il suo dovere di soldato, di americano e di cristiano.
Non c’è più nessuna differenza tra queste identità.
Non c’è più nessuna lotta interiore, ma solo un gesto da compiere e una preghiera che trafora più di ogni proiettile il cuore umano: “Ti prego Signore, fammene trovare ancora uno”. 75 uomini salvati perché questo è il suo compito, il suo destino. Lui risponde a quel grido che Dio gli ha lanciato nel buio di una notte assassina.
Tutto il resto del film è una grande cornice che ci prepara ad assistere ad una delle azioni di guerra più assurde che si possano vedere.
Si passa dall’infanzia e dall’adolescenza di un ragazzino in una famiglia livida per le violenze di un padre crivellato dai ricordi della prima guerra mondiale, all’addestramento brutale e virile per formare uomini che non saranno più uomini ma macchine da morte. O così sembra, fino alla scena della corte marziale, davanti a cui il giovane si deve presentare per la sua decisione di non imbracciare un arma, pur volendo partire per la guerra.
E qui avviene la vera e propria redenzione del padre. Scena indimenticabile.
Come indimenticabile è la figura della donna che il protagonista ama e sposa. Ma la grandezza di lei non ha parole, o meglio le si possono trovare nel momento in cui la decisione di partire per la guerra è presa: “E allora cosa aspetti a sposarmi!”.
Prontezza e tenerezza che solo una donna, una grande donna, può trovare.

Il Pigo