La cultura del benessere

La cultura del benessere, del welfare, è fondata su un’intuizione giusta e tutto sommato banale e superficiale: che la presenza di cose che ci piacciono (ma sarebbe meglio dire, l’assenza di cose che non ci piacciono) ci fa sentire bene. Per questo motivo la cultura del benessere è una cultura paurosa: ha come obiettivo lo scansamento della gran parte della vita quotidiana. Potremmo dire che la cultura del benessere è un tentativo universale (la suprema legge morale odierna) di eliminare il suo gemello oscuro, cioè il malessere. Ecco: il benessere è concepito nulla di più che l’antidoto al malessere.
Non si tratta, nei nostri giorni e nelle nostre società, di scongiurare tragedie che solo nel ‘900 erano realizzabili: nel XXI secolo (o almeno in questi primi due decenni) si vivacchia bene da noi, tutto sommato. La gente l’ammazzano in oriente: qua si ammazzano i depressi, i matti, i traditi e i traditori, gli sfortunati o gli stanchi. Ma rimane quella minaccia incombente: si sa che appena finito il benessere, il suo gemello oscuro si rifarà vivo.
È in questo che la cultura del benessere è imperdonabilmente ingenua: essa spera che il campo che sarà in grado di conquistarsi verrà proporzionalmente sottratto al malessere. L’equazione “più benessere meno malessere” è di una falsità pietosa: ma questo non si può dire perché crollerebbe tutto l’attuale sistema, crollerebbero le nostre speranze.
Non si vuole ammettere che, mentre il “sentirsi bene” è raggiungibile con qualche artificio, lo “star male” ha una radice non risolvibile: il malessere è il frutto del male. È il ricordo di una congenita, razziale, ineluttabile, irrefrenabile, per quanto incosciente inesorabilità del male che alberga nelle nostre stesse ossa. È il ricordo del male. Anche quello non fatto, ereditato o soltanto respirato. Che non si cura con flebo di benessere. Qui non vige la legge di mercato, secondo la quale ogni cosa ha il suo prezzo. Il benessere si può comprare: il malessere non si riesce a svendere.
Perciò dal malessere non ci si libera: si può soltanto sperare di esserne liberati.
È tutt’altra cosa dal triste e penoso stratagemma della dimenticanza: una strategia, del resto, del tutto inefficace dal momento che il male compiuto si può artificiosamente cancellare attraverso procedure psicologiche o auto-giustificative, ma il suo alone permane.
Qualcuno si è accorto che un benessere degno del suo nome si raggiunge solo quando, miracolosamente, si fa “il bene”, che non c’è godimento più puro e impagabile, per quanto sacrificante, che godere del bene altrui.
È odioso, per la cultura del benessere, dover riprendere in considerazione che lo star bene e lo star male siano in qualche modo profondamente collegati al bene e al male e al nostro rapporto con gli altri: a tutte quelle cose, cioè, che ci mettono a disagio, ci disturbano e rovinano il benessere di questa società di self made men.

Pesce Azzurro