La grazia delle grazie

In giovinezza sono stata lettrice appassionata di Dylan Dog. Ogni tanto – tra spettri, vampiri, zombi e mostri vari – Bonelli inseriva una storia di apparente normalità: in una città qualunque, gente qualunque iniziava un nuovo giorno uccidendo, senza apparente motivo, persone vicine o sconosciuti. Poi la giornata finiva e tutto tornava normale, nella città qualunque dell’albo del mese. Storie di ordinaria follia, per dirla alla Bukowski. E, in effetti, chiamarla follia ci mette un po’ in pace, soprattutto adesso che tanto spesso leggiamo di fatti reali che sembrano usciti da un albo a fumetti (e dove vorremmo poterli relegare…). Invece, pensare che l’uomo (che io) liberamente può compiere il male ci rende insicuri, ci toglie la tranquillità del meccanismo che, sì, magari può rompersi (malattia) ma che di norma funziona.
Alla fine della sua breve e tormentata vita il pretino di Bernanos (Georges Bernanos “Diario di un curato di campagna” – Ed. Mondadori) capisce che l’uomo non ha bisogno di essere sanato ma salvato. Le ultime parole del suo diario mi sembrano un giudizio più limpido e realista di tanti articoli scritti in questi ultimi giorni, perché partono dalla consapevolezza che nessuno si salva da solo (né la madre o il vicino omicida, né tanto meno io): “Odiarsi è più facile di quanto si creda. La grazia consiste nel dimenticarsi. Ma se in noi fosse morto ogni orgoglio, la grazia delle grazie sarebbe di amare umilmente se stessi, allo stesso modo di qualunque altro membro sofferente di Gesù Cristo.

Alice