Due ricordi:
Il primo. Da piccola scrivevo romanzi. Mi inventavo storie che andavano a riempire interi quaderni scritti a mano di giorno in giorno e che le mie compagne di ginnasio leggevano a puntate durante le lezioni. Erano storielle dove riviveva con nomi e fatti inventati il mio piccolo mondo di sedicenne. Una bruttura di cui periodicamente mi riprometto di eliminare ogni traccia. Avevano però un anelito grande perché, seppur acerbi o privi del tutto di esperienza, consapevolezza e tecnica, davano voce a un desiderio vero che intuivo e presentivo nella quotidianità di ciò che vivevo.
Il secondo. Anni fa durante un viaggio in treno lessi le bozze del racconto di un mio amico. Era ben scritto, ma non era questo il punto. Mi si chiuse lo stomaco dal disgusto, perché era una storia di meschinità dove le persone facevano del male per qualcosa di piccolo. (Non che giustifichi il fare del male per qualcosa di grande, ma almeno umanamente mi è più comprensibile).
La lettura de L’amica geniale e dell’intera quadrilogia della Ferrante (o chi per lei) mi ha fatto riaffiorare questi due ricordi, che forse aiutano a comprendere perché non valga davvero la pena dedicare tempo ai suoi romanzi. La trama di questi libri, che compongono un unicum in quattro volumi, ora diventati serie tv, è tutta incentrata sul rapporto di amicizia fra Lenù e Lila da bambine, adolescenti, adulte e infine alle soglie della vecchiaia. Tra le due, nel corso di quasi cinquant’anni, si alternano gelosia, cattiveria, invidia, frustrazione, menzogna, competizione, incomprensione, estraneità. Sullo sfondo una Napoli degradata, abusato e fastidioso pretesto di scrittorucoli elevati a maître à penser, su cui si accavallano piccole storie di piccole figure, di piccoli sentimenti. È tutto piccolo in questo libro. Non c’è amore, non c’è odio, non c’è neanche la violenza seppur additata come una delle cifre della narrazione. Il racconto dell’Italia dagli anni Cinquanta a oggi che ne emerge è di una superficialità stucchevole, un teatrino di buoni e cattivi (sempre gli stessi) altrettanto stucchevoli. La scrittura, piatta e prevedibile, riesce pure a essere artificiosa.
Ma oltre alla meschinità stilistica e di contenuti c’è qualcosa che mi ha irritato ancora di più e che ritengo non sia questione di negligenza, imperizia o imprudenza da parte di chi scrive. Si tratta dell’operazione di celare nella melma di questo romanzo fiume la completa assenza di ogni sentimento vero, profondo e durevole. Così, invischiati nelle vicende inutilmente protratte e prolungate delle protagoniste, per un totale di 1713 pagine, storditi e confusi, in un ritmo suadente da telenovela brasiliana, si è portati a non pensare. Per mano si è condotti a credere agli orpelli: alla tesi del bildungsroman, a indugiare nell’analisi introspettiva del rapporto fra le due amiche, o nel contrasto tra modelli di società arcaici e progressisti, quando quello che viene proposto e avallato è, assai più terra a terra, il misero e sordido racconto di un mondo senza ideali salvo l’Usura, la Lussuria e il Potere.
Perla