O figli o morte

O figli o morte
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La crisi demografica, come è noto, sta cambiando il profilo della società; c’è un evidente legame tra denatalità e secolarizzazione. L’Italia in particolare da questo punto di vista non è messa affatto bene, anzi occupa alte posizioni nelle classifiche non solo europee. Le proiezioni della popolazione scolastica per i prossimi anni sono a dir poco preoccupanti. Le indagini statistiche e autorevoli demografi però segnalano che i credenti, cattolici e non, hanno un’alta e consapevole visione del mondo e un sentito e profondo amore alla vita. L’adesione al Vangelo comporta sempre amore alla vita: nella gioia e nel dolore, anche rinunzie e sacrifici (come quelli legati, appunto, al mettere al mondo figli). A partire da questa premessa non vi è dubbio che, in generale, sono proprio le famiglie cristiane o comunque credenti quelle più feconde, senza dimenticare ovviamente quanto ancora importante sia l’apporto alla generazione della vita dei non credenti. 

Resta un fatto, tuttavia, che è possibile operare una comparazione fra appartenenza religiosa e indici di fecondità per documentare l’esistenza di un significativo legame: che, del resto, non ha nulla di misterioso, ma è la semplice constatazione che un profondo e intenso amore alla vita, la volontà di far crescere e di educare figli, è assai più presente, piaccia o no, nei credenti piuttosto che in coloro che hanno scelto la strada dell’ateismo o, ancor più, quella dell’indifferenza religiosa. 

Un risveglio della coscienza religiosa è allora una plausibile ricetta da proporre per arrestare il declino della natalità? Realisticamente, la strada da percorrere alla portata di tutti, credenti e no, è la presa di coscienza del valore oggettivo, e della forma irripetibile, che ha l’apertura alla vita: per la coppia prima ancora che per i figli. 

Amare la vita e, in quanto possibile, donarla è uno dei gesti più belli e più ricchi che una coppia possa compiere: accettando, si intende, anche i sacrifici che ciò comporta in notti perdute, riduzione di fatto delle disponibilità economiche, limitazioni di movimento, dato che più figli significano quasi sempre dormire di meno, vestirsi più semplicemente, ridurre i viaggi… Alla fine tutto dipende dalla scala di priorità. 

Vale sempre la regola delle responsabilità, il criterio da adottare nelle piccole e nelle grandi decisioni. Ma oggi, quasi sempre, la ‘responsabilità’ sembra essere declinata assai più nella direzione dei pochi figli (anche, si pensa, per poter dedicare loro più cura, e più ‘cose’): cosicché chi ha il coraggio di avere molti figli è spesso tacciato come irresponsabile e scoraggiato dalla società, spesso da parenti e amici. 

Eppure i teorici del figlio unico sono di fatto quelli che ‘spengono’ il mondo (senza ovviamente giudicare, con ciò, quanti per gravi e oggettive ragioni sono costretti a tale scelta) e chi ne generano più d’uno, invece lo ‘illuminano’ e ne rendono possibile la permanenza nel tempo. Torna il dilemma shakespeariano: ‘essere o non essere’? Insomma non ci si salverà dal declino demografico se non si accoglierà la strada dell’essere.

Moscardino