Solženicyn e la pratica della giustizia

Leggere Arcipelago Gulag di Solženicyn può essere un grande aiuto a prendere coscienza di ciò che accade anche oggi. Solženicyn parla di come funzionava il sistema del Gulag in Unione Sovietica, raccontandolo in tutti i suoi aspetti, dal suo inizio (il momento dell’arresto) fino alle sue ultime implicazioni (l’internamento, il lavoro forzato, il confino, la morte, ecc.) Ecco passaggi significativi di tale descrizione:
 
Nei vari anni e decenni, l’istruttoria basata sull’articolo 58 [l’articolo che puniva ogni “presunta” attività antisovietica] non è QUASI MAI stata fatta per appurare la verità, ma è consistita soltanto in una inevitabile sporca procedura: la persona poco prima libera, a volte fiera, sempre impreparata, doveva essere piegata […] [A. Solženicyn, Arcipelago Gulag, Mondadori 1974, vol. 1, pp. 232]
 
Nelle istruzioni riguardanti il terrore rosso il čekista M. Ja. Lacis scriveva: …durante l’istruttoria non cercate materiale e prove che l’imputato abbia agito con la parola o con fatti contro il potere sovietico. Prima domanda: a quale classe sociale appartiene, di quale estrazione è, qual è il grado d’istruzione di educazione. Queste domande devono definire la sorte dell’imputato. [Ivi, pp. 236-237]
 
E gli innocenti? Nel “Dizionario ragionato” di Dal’ è data la seguente distinzione: l’“indagine” si distingue dall’“istruttoria” in quanto la prima viene fatta per assicurarsi preventivamente se esistono motivi per procedere alla seconda. Oh, “sancta simplicitas”! Gli “Organi” non conobbero mai nessuna “indagine”. Elenchi mandati dall’alto, il primo sospetto, la delazione d’un informatore o anche una lettera anonima portavano all’arresto e all’immancabile imputazione. Il tempo assegnato all’istruttoria era impiegato non per investigare sul delitto, ma, nel novantacinque per cento dei casi, a stancare, estenuare, fiaccare l’accusato e farla finita, anche a colpi d’ascia pur di far presto. [Ivi, pp. 238-239]
 
Così l’uso della “giustizia” in Unione Sovietica, ai tempi della Čeka e del KGB. Pur non volendo fare paragoni azzardati o violenti (operazione già ideologica in partenza), bisogna riconoscere che a leggere le prime pagine dei giornali italiani in questi ultimi tempi c’è da trovare qualcosa in comune. Certo da allora molte cose sono cambiate (fortunatamente anche in Russia!), ma c’è come un preciso modo di agire di certa magistratura in sintonia con un uso spregiudicato dell’informazione pubblica, entrambi forzatamente politicizzati, che appaiono sconcertanti [si veda anche V. Zaslavsky, Lo stalinismo e la sinistra italiana. (1945-1991), Mondadori 2004].
Pensiamo al caso di Antonio Simone, incarcerato preventivamente per sei mesi e poi rilasciato, senza che a oggi ci sia ancora un rinvio a giudizio. O pensiamo al caso di Guido Haschke, arrestato la scorsa settimana a Lugano per un’inchiesta della Procura di Napoli su una grossa vendita di elicotteri da parte di una società di Finmeccanica, partita (udite!) dalle «dichiarazioni spontanee» di un ex-direttore dell’azienda che sostiene che le somme erano state gonfiate per pagare tangenti «alla Lega Nord e a Comunione e Liberazione».
D’accordo, oggi in Italia la tortura fisica non c’è più, ma c’è lo stesso qualche analogia con quello che diceva Solženicyn: l’annientamento della persona (tortura verbale, morale, mediatica?) PRIMA che si abbiano delle prove, il procedere di una pratica di giustizia che ha fra i suoi scopi il funzionamento della macchina stessa (il potere quasi illimitato di chi amministra la giustizia e la “macchina del fango” che investe gli accusati) e il concetto molto “fluido” di colpa ancorato alla presunta testimonianza di qualcuno (delazioni?) contro esponenti (e qui non c’è nessuna fluidità!) identificabili dal punto di vista dell’appartenenza sociale, politica, ecc.
Saranno solo analogie, forse facilmente liquidabili con i giusti “se”, “ma” e “puntini sulle i”, ma penso che certe domande non si possa fare a meno di farsele.
 
Salmon Blues