Ormai da molte settimane i giornali mettono giustamente in primo piano la crisi che sta avvenendo in Ucraina. Del mainstream informativo nel quale siamo immersi, colpisce sempre l’appiattimento della notizia sul presente e la mancanza pressoché totale di giudizi e analisi storico-culturali, segno della grande povertà intellettuale che domina l’epoca social dell’informazione di massa. Senza che ce ne si accorga, siamo indotti a guardare e giudicare ciò che avviene proprio come il “potere senza volto” (cit. Pasolini) vuole che facciamo, cavalcando l’istinto dei sentimentalismi e dei facili paradigmi (“buoni” vs “cattivi”).
Per capire la situazione, e giudicare veramente, penso invece sia necessario osare di più e guardare più in là.
Per prima cosa va detto che la crisi ucraina di oggi, infatti, è una delle conseguenze di una grande e pesante eredità che ci è stata consegnata dal secolo scorso: la dissoluzione dell’Unione sovietica.
Il crollo dell’URSS è stato senza dubbio un evento grandioso, il più importante del secondo Novecento: in nome della libertà, il più grande e longevo regime della storia contemporanea è caduto integralmente e senza sangue. Il suo collasso è stato dettato in gran parte da ragioni economiche, ma il fatto che sia avvenuto incondizionatamente e senza spargimento di sangue (è importante: non c’è stata alcuna rivoluzione e i tentativi di colpo di stato sono tutti velocemente naufragati) è stato il frutto mirabile di una consapevolezza culturale fortemente ideale che è venuta in particolare dal dissenso russo e dalla parte migliore della tradizione liberale occidentale.
Sul piano geopolitico, però, questo grande evento – che è stato e rimane una conquista di civiltà – ha prodotto gravi conseguenze, allora forse inimmaginabili, di cui oggi patiamo gli effetti.
La situazione è paradossale perché è proprio oggi – nel momento in cui viviamo la più profonda crisi antropologica e culturale della contemporaneità – che bisognerebbe avere la forza e il coraggio di guardare a questi problemi per aprire nuove strade e ricominciare a costruire.
Facciamo un esempio. Nel processo di dissoluzione, tutto quello che una volta era URSS e prima ancora Impero russo – un mondo perciò che per secoli è sempre stato unito politicamente, pur avendo grandi differenziazioni culturali ed etniche al suo interno – si è repentinamente diviso in stati nazionali indipendenti e autonomi.
Probabilmente era allora una strada obbligata, ma a vent’anni di distanza la domanda è altrettanto inevitabile: non è aggravare di un peso eccessivo il dare l’indipendenza politica a un paese che non conosce una storia politica autonoma (si pensi che nella sola Ucraina negli ultimi 9 anni ci sono state 4 gravi crisi politiche con altrettanti movimenti di piazza)?
Inoltre, il paradigma “popolo=nazione=stato” di matrice occidentale e illuminista non è un dogma molto poco universale e comunque inattuabile di fronte alla poliedrica e multiforme situazione storico-culturale di paesi con una diversa tradizione politica (si pensi che in Russia oggi si contano 160 differenti gruppi etnici che si identificano con altrettante famiglie linguistiche)?
Salmon Blues