UN LIBRO: Credere (Piemme), un dialogo fra Umberto Galimberti e Julián Carrón

UN LIBRO: Credere (Piemme), un dialogo fra Umberto Galimberti e Julián Carrón
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Credere, o no.

Carrón: «Io credo perché ho riconosciuto Dio nella mia esperienza e da quel momento la vita è fiorita».

Galimberti: «Io non sono né laico né ateo, io sono “greco”: significa sapere che devi morire e quindi acquisire il senso del limite».

Nella tradizione cristiana il figlio di Dio annuncia un futuro buono. E l’Occidente lo testimonia nell’arte, nella letteratura, nella carità, perfino nel pensiero di chi del cristianesimo è avversario. Anche per Marx il passato è ingiustizia, ma il futuro è giustizia sociale, per Freud il passato è trauma, ma il futuro è guarigione. «Tutto è cristiano in Occidente. Ma oggi – dice Galimberti – se tolgo la parola Dio dal mondo contemporaneo capisco ancora la realtà?». 

 

Galimberti dice che se il futuro non è più una promessa, se lo scopo manca, allora compare l’angoscia. 400 suicidi giovanili all’anno in Italia e tanti altri, anche di anziani, di uomini e donne sole; sono la diffusione degli stupefacenti, e di violenze gratuite e insensate, come per gioco. Il nostro mondo è intriso di nichilismo. I ragazzini delle medie spesso l’hanno già addosso. Anche i pazienti di Galimberti chiedono che ne è stato, degli ideali della loro giovinezza. Domanda inevitabile, quando pensi ai cortei di Milano anni ’70 e poi al veglione di Capodanno del 2022, con bande di adolescenti ubriachi che cercavano di violentare le coetanee. Quelli degli anni ’70, almeno, parevano credere in qualcosa.

 

Tecnica secondo Galimberti è il nuovo soggetto della Storia. La Tecnica non ha bisogno dell’uomo. L’algoritmo analizza i comportamenti, «li organizza in big data e poi dice a cosa servo io, non chi sono. Capite il deserto che si viene a creare?». Lo viviamo ogni giorno. Scoppiano qui e là dalle cronache storie di padri impazziti che massacrano i figli, di disabili soli trovati morti in casa dopo mesi, di quindicenni che hanno tutto, ma vogliono morire.

 

Si parla di “stanchezza dell’Occidente”, si vedono i segni di una vecchiaia che corrompe, di un decadimento inarrestabile. Come se con lo svuotarsi della fede cristiana non reggessero, contrariamente a quanto credevano gli Illuministi, i valori da essa portati. Ciò che non cede, invece, secondo Carrón, è la irriducibilità del nostro Io. Quella nostra radicale, ostinata ansia di felicità: «Dentro tutti i condizionamenti cui siamo innegabilmente sottoposti permane una libertà che nessuno può toglierci. Il punto è trovare uno sguardo, un incontro, un luogo che ce la faccia riconoscere, che la ridesti». Il punto è un professore che guardi con altri occhi l’alunno dell’ultimo banco, il più scadente, è l’infermiere che riconosce sua madre in una vecchia morente, è il vicino che bussa alla porta che non si apre mai.

 

È l’uomo che crede in Cristo che innerva il mondo di una vita nuova, anche nel deserto dell’Età della Tecnica. Dio ha bisogno degli uomini, e forse non è mai stato così vero quanto in questo nostro tempo. Questo tempo d’Occidente che guarda con stupore e ammirazione all’Ucraina, in lotta con le unghie e coi denti per la sua libertà: quasi laggiù credessero davvero in qualcosa. Come in qualcosa – Dio, o libertà, o eguaglianza, o patria, o fratellanza – ottant’anni fa si credeva in tanti.

Moscardino