VIVERE PER CENT’ANNI O PER CENTERBE

Cari amici pesci,
ho ventun anni ma ho scoperto di essere tremendamente vecchia dentro. E la scoperta è abbastanza recente, di poche ore fa: ho partecipato ad una serata tra amici universitari che ben presto si è trasformata in esperimento sociale.

Pizza, birra, vino, ma anche thé alla pesca e coca cola, acqua, alcolici non identificati, fumo e poi boh, si sussurravano tante e tante cose.
Ad un angolo del tavolo io intanto osservavo, fino a giungere alla conclusione che effettivamente esistono varie categorie umane:
  • il palestrato che vorrebbe allenare anche il cervello, ma si perde ancora nei luoghi comuni del momento (ma sì, che si ubriacasse! Ha 25 anni, lo deve fare! Si deve divertire!).
  • la bionda sexy col jeans attillato, la maglietta ristretta in lavatrice e due neuroni offerti in beneficenza. Un gran bel vedere, non c’è che dire, e poi, appunto, non c’è più che dire. Non c’è più niente.
  • lo sfigato che tenta disperatamente di catturarne l’attenzione, ridendo ad ogni frase, strimpellando la chitarra, abbozzando discorsi da Nobel. Ebbene: No-bel, no party. Rimane lo sfigato di turno.
  • il giullare di corte, il cui unico scopo è suscitare l’ilarità generale.
  • l’ubriacone del palazzo, il cui unico scopo è affogare ogni scopo della vita nell’alcol, ma, come direbbe il palestrato, si deve pur divertire!
  • la svampita, che non è bionda, non veste attillato, non vuol stare in mezzo alla scena, ma rimane assurdamente svampita, ubriaca di natura.
  • l’asociale, cioè la categoria a cui appartengo io.
Asociale, ovvero fuori dal contesto sociale, e ne vado anche piuttosto fiera.
Dicevo di sentirmi vecchia dentro, perché non ho trovato per me un posto in questo spaccato di società, di generazione, di miei coetanei. Ho sentito ragazze inneggiare all’alcol e alla droga e ho visto tutti gli altri ragazzi assecondarle. Vanterie e racconti sbandierati di esperienze al limite, anche della propria salute e vita. Ho assistito alla mercificazione del corpo, nascosta dietro ad una T-shirt che accidentalmente si alzava un po’ troppo, e poi ho visto che per me non c’era posto in questa “normalità”.
Potrò sembrare esagerata, moralista, estremamente rigida, tipica nobildonna del ‘700 inglese, ma non posso fare a meno di dubitare dell’assioma contemporaneo secondo cui il divertimento sta nel cosiddetto “sfascio”, nel ridursi a straccio imbevuto di sporcizia.

Stasera un ragazzo ha detto che abbiamo vent’anni, quindi così ci dobbiamo divertire, altrimenti quando lo si fa? Io non sono affatto d’accordo. Non è offuscando la ragione che si gode a pieno quello che la vita offre. L’ideale sarebbe vivere ogni esperienza assaporandone il gusto, imprimendolo su ogni fibra del corpo, e poi lasciarlo stampato nella memoria, non sul fondo di un bicchiere. A cosa valgono le serate spese a ridere con gli amici, se poi non se ne conservano neppure le briciole dei ricordi? Così non si costruisce una vita, ma si raccolgono i pezzi di un qualcosa di consumato, nemmeno vissuto realmente. Consumato il fegato, consumati i polmoni, consumato il tempo in sciocchezze, consumate le possibilità di vivere esperienze uniche. Per cosa poi? Per seguire una massa di gente disorientata che, cieca, si lascia guidare dal fantasma della “joie de vivre”.

E il bello, in tutto ciò, è che io rappresento il diverso, la nota stonata, la pecora nera del gregge, il vino ormai diventato aceto.
E sarò vecchia. Sarò l’asociale dell’esperimento di stasera. Sarò anche assente da ogni logica, ma almeno sarò sempre e orgogliosamente presente a me stessa.

Senza Scampo

3 Risposte a “VIVERE PER CENT’ANNI O PER CENTERBE”

  1. Eppure di questo mondo noi siamo parte, non possiamo tirarcene fuori (e lo dico con te, tante volte anch’io penso quello che pensi tu e che tu hai detto benissimo). Se uno sguardo su noi e sul mondo ci è dato, non è con l’orgoglio di una diversità che possiamo marchiare le nostre vite: correremo, secondo me, un rischio troppo grande. Siamo stati e saremo il palestrato, il giullare e l’ubriacone, ogni giorno, nella città degli uomini: salvati in ogni momento (ieri e domani, “adesso e nell’ora della nostra morte”) da una grazia che non ci è dovuta. Che questo stupore ci tenga attaccati, con un filo di tenerezza, alla nostra città: nessuno è senza scampo 🙂

  2. Ciao, Renato, ti ringrazio del commento,soprattutto perché vuol dire che hai dedicato qualche minuto del tuo tempo a qualche mia riflessione.
    Tu dici che siamo salvati da una grazia che non ci è dovuta e parli di tirarsi fuori dal mondo. Specifico che la mia prospettiva non è questa, non si tratta di estraniarsi dal tutto, ma è piuttosto un’esortazione – con un filo di polemica, lo ammetto – a capire che si può essere migliori di quel che si è, che bisogna sempre aspirare ad una crescita, nella accettazione della propria necessaria e inevitabile diversità, ma con la consapevolezza che in questo percorso di maturazione siamo tutti uguali.
    E poi, suvvia, la grazia non ci sarà dovuta, ma, come si dice, “aiutati che Dio ti aiuta!”.

    Comunque, sei il mio primo commentatore, quindi hai diritto ad un premio: un invito a leggere e commentare anche gli altri articoli hahaha ci conto!

  3. La lettura del tuo articolo mi ha riportato alla mente questa canzone di Guccini: La bambina portoghese.
    https://www.youtube.com/watch?v=vDC7xYk_jVw
    Non so se anche tu ci vedi delle affinità. Comunque, “… capirai che la vera ambiguità è la vita che viviamo, è qualcosa che chiamiamo esser uomini. E poi quel vizio che ti ucciderà non sarà fumare o bere, ma qualcosa che ti porti dentro, cioè vivere, vivere, vivere, vivere… “

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