Recenti pubblicazioni di scienziati, soprattutto francesi, prospettano anche se implicitamente una nuova alleanza tra la scienza e la fede. Le scoperte della relatività, la meccanica quantistica, l’espansione dell’Universo, il Big Bang, la complessità della vita, contrariamente a tutte le previsioni, all’inizio del XXI secolo sembrano affermare come vincente l’idea di un Dio creatore. Ma la scienza può fornire le prove dell’esistenza di Dio? C’è chi torna a perorare la distinzione fra i due campi, quello della fede e quello della scienza. Come scrisse Galileo, la fede c’insegna «come si vadia al cielo, non come vadia il cielo». Già in passato si è fatta troppa confusione e la Chiesa cattolica in particolare ha preteso di invadere il campo degli scienziati per evitare che fossero poste in discussione le proprie verità. D’altra parte, è accaduto anche il contrario e il mondo della scienza ha preteso di poter pervenire a una “teoria del tutto”. È abbastanza normale pensare che la scienza metta Dio alla prova. La scienza, infatti, pretende di spiegare i fenomeni naturali senza ricorrere a cause extranaturali. Certo, c’è sempre qualcosa che rimane inspiegabile. Nel panorama sempre più serrato delle spiegazioni del mondo permangono dei vuoti, degli interrogativi aperti, in particolare il passaggio dalla materia inerte alla materia vivente. Ma nulla dice in anticipo che rimarranno tali. Questo ci riporta alla difficile questione dell’azione divina nel mondo fisico. Giovanni Paolo II del 1988 disse: «La scienza può purificare la religione dall’errore e dalla superstizione; la religione può purificare la scienza dall’idolatria e dai falsi assoluti». Provare l’esistenza dell’atomo è una cosa, ma non si può usare la stessa procedura per il Dio che si è rivelato in Gesù Cristo. Questo è una questione che riguarda la libertà.
Le scoperte del XX e XXI secolo hanno riproposto certe questioni filosofiche e teologiche che il positivismo dell’800 aveva relegato in un passato metafisico, ma ciò non significa confondere i piani. La scienza e la fede si situano su due registri differenti. Conoscere un oggetto fisico e conoscere Dio non appartengono allo stesso ordine. Questa distinzione evita la confusione dei generi che conduce ad appropriazioni indebite, come quando si sostiene che la scienza proverebbe la verità della religione; o come quando si afferma che la scienza dimostra che Dio non esiste. Un’antica scienza teologica, chiamata ‘apologetica’, aveva il compito di “spiegare” o “difendere” la fede cristiana, giustificarla davanti a chi non la comprende o la confuta; questa antica disciplina teologica si è rinnovata di fronte alle sfide di ogni epoca. Se è vero che non è più il tempo di difendere la fede davanti alle autorità imperiali romane come nei primi tempi del cristianesimo, il «rendere conto» rimane ancora una scommessa. Un’apologia dunque, ma senza nessuna volontà di annacquare il messaggio cristiano né tantomeno di volerlo conciliare con la modernità senza considerare tutte le asperità di un dialogo-scontro come quello che si è verificato negli ultimi secoli. Apologia che si fa testimonianza e che trova il proprio riferimento nella figura di Giobbe, il quale al contrario dei suoi amici che l’accusano in nome della giustificazione dell’opera di Dio, ribalta il discorso e chiama in causa Dio stesso.
Causa dell’allontanamento dalla fede da parte dei contemporanei sono anche le lacune più o meno vistose, ma comunque consistenti, nella predicazione e nella pastorale delle Chiese, nonché la qualità della vita comunitaria e lo stile di vita. Inoltre, il discorso pubblico delle Chiese oggi è molto incentrato su questioni sociali, a scapito forse del discorso su Dio: conseguenza di un imbarazzo, insicurezza psicologica, eccesso di pudore, o non piuttosto una sostanziale carenza di fede? Domande che emergono con tutta evidenza quando non si riesce a pronunciare parole in grado di lenire la sofferenza dando un senso alla morte, o quando si tergiversa sulla risurrezione, come spesso tocca sentire nei funerali.
Moscardino