La Politica si fa con la Politica

La Politica si fa con la Politica
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Come tutte le elezioni politiche dal 1994 in poi, anche questa tornata elettorale si è dimostrata
foriera di diverse sorprese, ma anche di alcuni dati che confermano le previsioni e di molti elementi
che vanno analizzati e giudicati.

Il Centrodestra vince
Vince il Centrodestra, e vince tanto. Fratelli d’Italia con Giorgia Meloni è il primo partito al 26%,
tiene Forza Italia che riporta Silvio Berlusconi in Senato, male invece la Lega di Matteo Salvini e male
Noi Moderati di Lupi, Toti e Brugnaro che nonostante l’unione di tre liste non raggiunge nemmeno
l’1% e dunque i voti andranno purtroppo persi. Il Centrodestra vince tanto anche perché già la sola
FdI ha più voti di tutto il Centrosinistra e anche unendo i voti del Movimento 5 Stelle la coalizione
di Centrodestra resta sopra con il 44%.
Il Centrodestra vince perché, pur con alcune contraddizioni e difficoltà, ha tenuto in tutti questi anni
le sue posizioni fondamentali e in particolare FdI, quello che era il partito più piccolo, ha costruito
dal basso, da partito tradizionale si potrebbe dire, il suo consenso, non inseguendo ma facendosi
seguire e sapendo cambiare posizione quando ragionevole e pure FI ha saputo mantenere la sua
posizione liberale e popolare, costruendo inoltre un asse europeo col PPE, che assicura il
posizionamento europeo e internazionale della coalizione.

Il Centrosinistra perde
Perde il Centrosinistra, e perde tanto. Il Partito Democratico raggiunge il minimo storico di voti
assoluto (anche peggio di Renzi nel 2018) e soprattutto porta in parlamento pochi deputati e
senatori, resta lontano dalla soglia psicologica del 20% e perde anche nelle cosiddette roccaforti
(Pisa, Livorno, Arezzo, per esempio) sopravvive solo in qualche zona tra Emilia-Romagna e Toscana,
nel centro di Milano e soprattutto a Torino città (probabilmente l’ultima vera roccaforte rossa).
Il Centrosinistra perde semplicemente perché, appunto, ha smesso di fare politica, di fare proposte
politiche, passando dal già fu morettiano “di’ qualcosa di sinistra” al “di’ qualcosa, qualsiasi cosa”
che oggi potremmo dire. Si è limitato a gestire il potere, prima culturale e poi politico ed economico,
conquistato in oltre settant’anni e a compiacere e farsi compiacere dalle élite. Ma, appunto, per
gestire il potere e piacere alle élite non bisogna avere una identità, un’anima (e, se la si ha, bisogna
perderla) e fare proposte, ma, al più, basta solo puntellare (e così governare per
nove anni su dieci senza aver mai vinto una elezione).

Il Movimento 5 Stelle oltre le aspettative
Risposte sbagliate a esigenze giuste: così il Movimento 5 Stelle riesce a superare il 15%. Dopo tante
divisioni, scissioni e scossoni era dato per politicamente morto, ben al di sotto il 10% e invece si
attesta come terza forza nazionale (doppiando la sua nemesi politica terzo polista di Calenda-Renzi)
e prima forza al sud, sfiorando punte del 50% in alcune zone.
Il M5S recupera per due principali ragioni: supera tutte le sue infinite contraddizioni di questi cinque
anni (le supera ma non le risolve), tornando alle origini e ai suoi temi fondativi (giustizialismo,
assistenzialismo, radicalismo, progressismo, diritti senza doveri e ambientalismo) e difendendo in
toto – unico schieramento – il sistema del reddito di cittadinanza. Può quindi contare su una platea
di partenza di potenziali sostenitori di almeno quattro milioni di persone, che il caso vuole
corrisponda a circa il 15% degli elettori votanti secondo l’attuale affluenza. Ma, appunto, risposte
sbagliate a esigenze giuste, perché è l’unico partito che si accorge e parla di povertà, offrendo però
la risposta più sbagliata ed assistenzialista.

Perdono tutti gli altri
Perde il terzo polo, e perde male. Perché non riesce praticamente a fare nemmeno la somma dei
due partiti (che era 7-8%) prende qualche voto al PD e pochi al Centrodestra, ma non va oltre il
perimetro storico dei liberali, che da 70 anni è sempre più o meno del 6-8%. Soprattutto è la formula
del voto meramente della competenza ‘in bianco’, senza sapere da che parte andrà, che non
convince l’elettore popolare (al massimo può andar bene per l’élite).
Perdono anche tutte le piccole compagini di sinistra (Unione Popolare, Italia Sovrana e Popolare) e
di destra (ItalExit e Alternativa) non coalizzate, certamente non avvantaggiate dal sistema elettorale,
ma anche mai veramente attrattive in tutta la storia elettorale repubblicana.

In sintesi
Perdono e perdono male le proposte tecniche, agende, realtà apparentemente ‘terze’,
rassemblement di piccoli partiti o i tentativi isolati, tutte proposte che non sfondano, non hanno
mai sfondato e probabilmente mai sfonderanno. Perché, alla fine, il voto si polarizza sempre, e
l’elettore se deve scegliere tra l’originale e le piccole copie, tende a scegliere l’originale. Per questo,
più dei tentativi isolati, in politica paga l’impegno nei partiti strutturati e, se possibile, in una delle
due coalizioni principali.
Tutto ciò significa avere un’identità precisa e delle proposte chiare, da cui si evinca una o l’altra
concezione antropologica – in un dialogo aperto e appunto politico – proporla a tutti e su quella
chiedere il consenso, spiegandone le ragioni e i criteri.
Vince cioè la politica (che torna a ‘governare’ dopo dieci anni di stallo), vince cioè prendere una
posizione e soprattutto tenerla, perché la politica è decidere, indicare soluzioni e non appena
seguire i desiderata di questa o quella parte del popolo o di questo o quel potere.
Perde invece il trasformismo, la confusione, “sono tutti uguali”, il “non esistono cose di destra e di
sinistra ma solo cose giuste”; destra e sinistra esistono come e più di prima (in base a quelle diverse
visioni dell’antropologia che fonda l’idea di società e di uomo di cui sopra). Perde, inoltre,
l’apparente vantaggio tattico a scapito della visione a lungo termine (Di Maio è solo l’ultimo
esempio, ma Fini, Follini, Tosi, e tanti altri prima di lui, insegnavano già).
La politica si fa con la politica, partendo dal bene comune – che non è appena la ‘media ponderata’
del bene condiviso, bensì esige una tensione ideale – e si fa ascoltando i corpi intermedi, tenendo
conto del contesto sociale, della legislazione elettorale, dei numeri, del metodo stesso proposto (e
imposto) dalla politica; e si fa partendo da una posizione precisa, dentro un’identità chiara,
proponendola liberamente a tutti, su cui ci si confronta e si misura il consenso.
Costruire ideologie e inseguirle o, all’opposto, sostenere che le ideologie non esistono ed esistono
solo competenze, non paga. E lo abbiamo visto, di nuovo.

Hammerhead